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New normal economico. Ne parliamo con Stefano Natoli, giornalista del Sole 24 Ore

Elena Bottari Dicembre 20, 2016

La nostra economia è in stallo e le famose schiarite risolutrici di cui ciclicamente si parla non arrivano, lasciando le persone sempre più confuse e scettiche. Quando dalle pagine dei giornali i politici parlano di ripresa e gli individui hanno invece l’impressione di scivolare verso un costante peggioramento delle condizioni di vita, la reazione può essere di ulteriore sfiducia sia verso l’economia sia verso l’informazione che sembra talvolta parlare di mondi diversi da quelli percorsi dai cittadini.

Il Censis ritrae un’Italia sempre più povera con orizzonti bui. D’altra parte, chi ha dei soldi ha molta paura ad investirli pur sapendo che lasciarli sul conto o sotto il materasso sia una scelta non priva di rischio. Tutti sembrano avere paura di sbagliare comunque si agisca e la voglia di imbarcarsi in imprese commerciali passa, pensando alla burocrazia e alle moltissime spese certe (tasse, previdenza, oneri vari) contro la certezza dei lunghi tempi di avvio e di recupero del capitale investito.

Così, se da una parte chi non ha mezzi soffre sempre di più e non ci sono piani concreti contro la povertà pianificati a breve o medio termine, chi ha risparmi è impietrito dalle notizie su banche fallite, investimenti scriteriati, evaporazione di investimenti e tiene tutto fermo aspettando di vedere cosa succeda.

Cosa sta succedendo nella nostra economia e quali sono le soluzioni attuabili?

Lo chiediamo a Stefano Natoli, giornalista del Sole 24 Ore che è stato così gentile da volerci aiutare a capire meglio la situazione attuale. Per chi è digiuno di economia, come noi, è difficile cercare di capire quella che sembra più una jattura che un fenomeno scientificamente osservabile ma vale la pena tentare, guidati da chi tratta ogni giorno tali argomenti e con cognizione di causa.

Cosa ci dobbiamo augurare che succeda a breve perché si crei un clima economico più sereno?

In realtà quello che doveva succedere è già successo e l’Italia non ha saputo purtroppo approfittarne più di tanto. Mi riferisco agli “aiutini esterni” che per un paio d’anni hanno consentito alla nostra economia di respirare: penso al QE di Draghi (l’acquisto di titoli pubblici da parte della Bce che ha di fatto congelato il famigerato spread), ai prezzi bassi del petrolio, al mini-euro che ha reso le nostre esportazioni più competitive contribuendo al saldo positivo della bilancia commerciale.
Difficile pensare che in questo momento ci possa essere qualcosa di ancora più potente che possa rasserenare il clima economico (la crisi politica attuale, fra l’altro, certamente non aiuta). I fattori potenzialmente destabilizzanti sono purtroppo tanti e difficilmente aggirabili. Penso innanzitutto al fattore geopolitico che continua a produrre guerre e migrazioni bibliche, ma anche al rallentamento della domanda da parte della Cina (che sta finalmente cercando di aumentare i consumi interni) e al rialzo dei tassi da parte della Fed che potrebbe comportare problemi per i paesi emergenti (ancora in crisi di crescita).

Noi siamo abituati a pensare all’economia come ad un “intero” ed invece è fatta di diverse componenti che sono l’economia reale, l’economia finanziaria e l’economia monetaria. In che misura ciascuna delle parti appena citate contribuisce a creare il pantano in cui ci troviamo?

Il pantano in cui ci troviamo è prodotto in prima misura dall’incapacità dell’economia reale di barcamenarsi in una congiuntura internazionale sempre più difficile e complicata. Ma alla base di questa incapacità c’è senz’altro anche il fatto di  non saper intercettare per tempo i cambiamenti: mi riferisco a fenomeni come digitalizzazione e banda  larga che ci vedono purtroppo ancora lontani da una situazione accettabile. Sull’industria 4.0 ad esempio c’è ancora molto da fare.
La politica monetaria, come già detto, il suo l’ha fatto e anche bene. Sono gli Stati che non ne hanno saputo approfittare portando a termine le riforme strutturali necessarie a rilanciare la competitività (da noi ferma da un ventennio), fermare la corruzione, sgonfiare la burocrazia, abbassare la pressione fiscale. Gli stessi Stati che non hanno saputo porre un freno a quella “economia di carta” che “pesa” 10 volte più di quella reale e che toglie a questa risorse importanti destinandole invece alla speculazione.

Quanto sarebbe importante considerare anche il peso dell’economia comportamentale per prevedere gli effetti delle decisioni della politica in materia economica e magari aggiustare il tiro in senso più umano?

L’economia comportamentale ha senz’altro una grande importanza. Facendo le “scelte giuste” – in ambiti quali l’istruzione, la sanità e il risparmio energetico – il cittadino migliora senz’altro il suo benessere personale, ma anche – indirettamente – quello del Paese. Del resto se il “nudging” (questo il termine inglese della “spinta gentile” a fare le scelte giuste) è già applicato in più di 130 nazioni una ragione ci sarà. Anche questo tipo di economia andrebbe comunque aiutata a svilupparsi in modo da poter dispiegare pienamente le sue potenzialità.
Un altro tipo di economia virtuosa da sviluppare è quella cosiddetta “circolare”: un modello che pone al centro la sostenibilità del sistema, in cui non ci sono prodotti di scarto e in cui le materie vengono costantemente riutilizzate. Si tratta di un sistema opposto a quello definito “lineare”, che parte dalla materia e arriva al rifiuto. Per rendere sempre più efficiente questo sistema servono misure che siano in grado di aumentare il tasso di riciclo negli Stati membri e di facilitare la transizione verso la “circolarità”.

L’economia mondiale sta navigando a vista? Ci sono precedenti a cui ispirarsi per capire cosa ci dobbiamo aspettare o non ci sono rotte intuibili per traghettare gli stati come il nostro fuori dai guai?

L’economia mondiale è in una fase di aggiustamento continuo, con equilibri messi continuamente in discussione. La Grande recessione iniziata nel 2007 – con i suoi successivi colpi di coda – ha spazzato via le certezze di un tempo imponendo una realtà nuova e ignota dove ormai gli Stati sono costretti a navigare a vista. L’instabilità globale è di fatto diventata regola. Siamo entrati in un periodo che gli economisti definiscono “new normal” economico, un cocktail fatto di crescita debole, disoccupazione elevata, deflazione persistente e bolle di maxi-debiti sempre in agguato. Una crisi che ha cambiato il mondo così come lo conoscevamo prima e che sembra non passare mai.
Per spiegare questa crisi si fa spesso riferimento al 1929, anno della caduta di Wall Street. Una crisi che fu archiviata dopo molti anni (nel 1937 ci fu infatti una ricaduta) e che ridusse sul lastrico milioni di persone. Un po’ quello che sta succedendo oggi. Il problema è che oggi non ci sono Keynes in circolazione. C’è invece, soprattutto in Europa, un mainstream che continua a ripetere il mantra dell’austerità. Quel mantra che nel corso degli anni più che una soluzione si è rivelato un problema. In una situazione del genere traghettare gli Stati come il nostro fuori dai guai non è per niente facile. Anzi diventa una mission quasi impossible. La soluzione sarebbe l’istituzione di una governance mondiale in grado di farsi carico delle emergenze del nostro tempo. Ma, visti i tempi, è forse più facile chiedere la luna.

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