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Ripensare l’identità – queste menzogne che uniscono. Traduzione dell’articolo di Vincent Edin

Elena Bottari Ottobre 5, 2021

Il tema dell’identità è cavalcato da molte voci riconoscibili per una certa virulenza di toni e per l’assoluto appiattimento di visione riguardo argomenti quali le origini, le radici, la tradizione e la cultura intesa da un punto di vista etnocentrico. Su Usbek et Rica, Vincent Edin ci parla di un importante saggio di  Kwame Anthony Appiah nell’articolo intitolato I populisti rivendicano il nazional-socialismo e Shakespeare, l’eugenetica e Euclide, la democrazia e Dante. Vi si parla di cancel culture e di appropriazione culturale ma soprattutto si punta ad unire più che a separare.

Professore di filosofia a Princeton e Presidente del prestigioso PenClub americano, Kwame Anthony Appiah firma Ripensare l’identità – Queste menzogne che uniscono  (Grasset, ottobre 2021). In un’epoca ossessionata dall’identità, di qualunque genere sia, di colore della pelle, di classe sociale o ancora di cittadinanza, un simile saggio è più che benvenuto, è salutare!

Kwame Anthony Appiah, 67 anni, pensatore molto influente nel mondo anglosassone con saggi pubblicati da più di trent’anni è finalmente disponibile in francese […] Le sue riflessioni sulla lingua e le questioni identitarie hanno nutrito i grandi romanzieri della sua epoca: lo troviamo citato in autori progressisti come Zadie Smith o Bernardine Evaristo, per esempio.

Decostruire le identità, non significa negarle, nient’ affatto. Lui stesso evoca il fatto di essere cresciuto tra il Ghana e il Regno Unito, di essere il figlio di una madre bianca e anglicana e di un padre nero e metodista o ancora il fatto di essere sposato con un uomo. Ma mette tutto questo nel dibattito per mostrare la complessità dei percorsi  e il rifiuto assoluto di essere ricondotto ad una sola dimensione.

Sono umano e niente di ciò che è umano mi è estraneo

A favore dei saggi sui romanzi, a maggior ragione sui polizieschi, possiamo svelare le ultime parole del libro senza rovinare nulla. In questo caso, quelli di « Ripensare l’identità » illuminano la brillante dimostrazione precedente e si offrono a noi come una bussola: « Ecco come Publio Terenzio Afro, più di duemila anni fa, presentava le cose: « homo sum, humani nihil a me alienum puto ». « Sono umano e nulla di ciò che è umano mi è estraneo».  E dunque ecco un’identità che ci dovrebbe accomunare tutti.

Una gran parte della loro pericolosità risiede nel modo in cui le identità – la religione, la nazione, il colore della pelle, la classe sociale e la cultura – ci dividono e ci aizzano gli uni contro gli altri

Un’arringa veramente a favore dell’universalità abbastanza rara in tempi settari, tribali o di lotte che oppongono le identità le une contro altre. Appiah riconosce evidentemente che non possiamo fare a meno di identità ma prosegue dicendo che «dobbiamo comprendere meglio se abbiamo speranza di riconfigurarle e di liberarle degli errori commessi a proposito di esse, spesso vecchi di più di duecento anni. Gran parte della loro pericolosità riguarda il modo in cui le identità – la religione, la nazione, il colore della pelle, la classe sociale e la cultura – ci dividono e ci oppongono gli uni contro gli altri. Possono essere le nemiche della solidarietà umana, le cause della guerra, i cavalieri di una dozzina di apocalissi, dall’apartheid al genocidio ».

Uscire da una visione unicamente classista del mondo

L’inizio del suo libro spiega bene le ragioni di questa tendenza attuale alla generalizzazione, all’essenzializzazione che molti strumentalizzano: «Siamo creature che hanno « lo spirito del clan». Non apparteniamo solamente a categorie umane: preferiamo i nostri e ci facciamo mobilitare facilmente gli uni contro gli altri». Ciò detto, non abbandona affatto una lettura sociologica del mondo, al contrario. Questo francofilo (cita a più riprese Chrétien de Troyes) riconosce piena legittimità a Bourdieux per i suoi lavori sull’habitus e sull’exis corporale. 

Sottolineare contraddizioni sociologiche non dà tuttavia sempre ragione ad una visione unicamente classista del mondo: se ci si fermasse a questo, agenti di polizia provenienti in larga maggioranza dagli ambienti popolari non reprimerebbero movimenti sociali nei quali la maggioranza dei manifestanti o degli scioperanti provengono dalle loro stesse classi sociali.

A proposito delle trappole dell’identità di classe, Appiah cita d’altronde il sociologo inglese Michael Young, messo sotto i riflettori in altri libri di questo rientro dalle vacanze dell’editoria (per l’appunto Héritocratie del sociologo Paul Pasquali), inventore del termite « meritocrazia » a fini distopici! Nel suo romanzo, La meritocrazia nel maggio 2033, la nascita e il denaro come modo di distinzione sociale sono stati rimpiazzati dal merito, ma visto che il merito ricompensa sempre gli stessi, scioperi generali e assassinii si moltiplicano per far avvenire un modo realmente ugualitario. Questo non può avvenire che in un mondo in cui l’insieme dei talenti e dei meriti siano riconosciuti, dove la «prima linea» incensata durante il Covid sia riconosciuta sia finanziariamente che socialmente. Insomma, si tratterebbe di abbandonare la nozione di «ascensore sociale» in cui bisogna necessariamente salire, per andare verso una maggiore orizzontalità dei meriti.

L’identità « occidentale », principale pericolo contemporaneo

Il principale pericolo identitario indicato dall’autore è quello che accade oggi, in Europa e negli Stati Uniti, con numerosi reazionari che si impadroniscono delle Luci per promuovere un’identità « occidentale », una storia scritta da uomini bianchi di confessione giudaico-cristiana.  Repenser l’identité mette a nudo brillantemente le loro contorsioni e le loro menzogne quando vantano la superiorità di questa pretesa identità conservano il meglio della storia e trascurando il peggio. « La civiltà occidentale? sarebbe una buona idea » dichiarava maliziosamente Ghandi di fronte a questa mistificazione tesa a far credere che gli abitanti di New-York, Londra, Parigi e del Texas sarebbero uniti da una stessa cultura.

Per Appiah, il genio dello storytelling è di vedere, all’inizio della guerra fredda, una narrazione in cui tutto non sarebbe che spirito, bontà e Luci in anticipo sui tempi: «Nella freschezza della battaglia, abbiamo fabbricato una grande narrazione da Platone alla Nato a proposito della democrazia ateniese, la Magna Carta, la rivoluzione copernicana e via di seguito. La cultura occidentale era, nel suo cuore, individualista e democratica, preoccupata delle libertà e tollerante, progressista, razionale e scientifica. E tanto peggio se l’Europa pre-moderna non era stata niente di tutto questo e che fino al secolo precedente, la democrazia era un’eccezione in Europa; pochi fedeli del pensiero occidentale avevano qualcosa qualcosa di buono da dire su questo argomento».

Numerosi eruditi come Raymond Aron hanno tuttavia alimentato questo mito di un Occidente liberale e liberatore del resto del mondo. E ancora di parla di uno spirito elevato, ma i nuovi populisti che agitano lo spauracchio della guerra di civiltà e l’importanza di difendere l’identità occidentale hanno una lettura più che parziale del bilancio delle proprie. Così si dica dei suprematisti bianchi, dagli Stati Unita a Pegida in Germania che «rivendicano il nazional socialismo e Shakespeare, l’eugenetica ed Euclide, la democrazia e Dante».

La cancel culture messa sotto accusa

Rifiutando ogni trappola identitaria, ogni riduzione degli umani a identità impossibili ma mischiare, Appiah non apprezza granché gli adepti di una cancel culture primaria che vedono appropriazione culturale ovunque. Una pigrizia intellettuale secondo lui: « dovremmo opporci all’uso del termine « appropriazione culturale » come di una accusa. Tutti gli oggetti e le pratiche culturali sono fluide; sciamano e quasi tutti sono il prodotto di mescolamento».

Immaginate cosa sentirebbe un rabbino ortodosso se un non ebreo, un milionario della musica pop, facesse un videoclip nel quale utilizzasse il kaddish per fare il lutto di una Maserati

Più avanti, ricorda quello che bisogna condannare nelle pratiche imbecilli e ripugnanti, come il « black face », è un sistema globale e non solo un furto identitario : « Il problema non è il furto, è la mancanza di rispetto. Immaginate cosa sentirebbe un rabbino ortodosso se un non ebreo, un milionario della musica pop, facesse un videoclip nel quale utilizzasse il kaddish per fare il lutto di una Maserati che avesse rovinato. Il delitto non è l’appropriazione; è l’affronto causato dal fatto di banalizzare qualcosa che un altro gruppo considera sacro. Coloro che analizzano queste trasgressioni in termini di proprietà hanno accettato un sistema commerciale che è straniero alle tradizioni che pretendono di proteggere. E’ un’appropriazione, hanno permesso che un regime moderno della proprietà «si impadronisse» di essi »

E’ alla luce di questa critica che capiamo meglio i critici dei movimenti identitari reazionari perché qualunque lotta unicamente identitaria è un vicolo cieco  e il sottotitolo del libro trova tutto il suo significato «queste menzogne che uniscono». Ci sono troppe scorciatoie, di pigrizia, di facilità a condurre lotte unicamente in nome delle identità, questi richiami per uccelli che intrappolano chi è troppo stanco per sobbarcarsi la complessità del mondo. Si obietterà che Appiah venderà sicuramente cento, mille volte meno dei libri che Éric Zemmour, cantore della riduzione del mondo a questioni identitarie. Certo. Finiamo con un aforisma di Seneca che Appiah non rinnegherebbe: «non è perché le cose sono difficili che noi non osiamo, è perché non osiamo che sono difficili».

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