Nel libro Cambiamo strada, Le 15 lezioni del coronavirus edito da Raffaello Cortina editore, Edgard Morin, classe 1921, affronta i danni del neoliberismo alla luce della pandemia e indica soluzioni praticabili se solo si avesse la forza di osare. Morin ha attraversato il 900: epidemie, crisi economiche, la seconda guerra mondiale da partigiano, il maggio 1968, la politica dei blocchi contrapposti, l’ambientalismo e la globalizzazione con uno sguardo non ideologico e con il dono, conquistato duramente, di non guardare all’uomo e al mondo come ad un insieme di compartimenti stagni.
Edgard Morin è quasi sconosciuto in Italia. Nessuno lo cita nei dibattiti. Se ne parla al massimo come sociologo, non si sa bene che mestiere faccia visto che si interessa di numerosi argomenti e nemmeno in Francia è tra le personalità più sulla cresta dell’onda ma ignorare il suo pensiero filosofico, l’approccio interdisciplinare e la sua formidabile esperienza di vita è un lusso provinciale che non possiamo più permetterci.
Morin ha fatto propria e sviluppato in senso filosofico la teoria dei sistemi complessi giungendo a rappresentare in modo quasi plastico i processi di interdipendenza a cui economia, società, salute, democrazia sono soggetti.
Oltre all’impatto nefasto sull’ambiente, la globalizzazione porta ad una perdita di sovranità e di autonomia economica degli Stati. Più in generale, è emerso chiaramente che la globalizzazione, poiché essenzialmente tecno-economica, aveva creato una generale interdipendenza priva di ogni solidarietà. E quando la crisi è diventata globale, l’interdipendenza spezzata ha abbandonato economie e popoli a economie amputate in una dipendenza economica e morale fino ad allora sconosciuta.
Prima della pandemia, era evidente che la globalizzazione tecno-economica, lungi dal creare legami tra culture e nazioni, portava a ripiegamenti etnico-religiosi e/o nazionalisti. Questi ultimi hanno occultato la comunità di destino e di rischio creata dalla stessa globalizzazione.
La globalizzazione deve più che mai essere regolata e controllata da un’antiglobalizzazione e combinarsi con de-globalizzazioni in materia sanitaria ed alimentare.
La risi planetaria nata dal Coronavirus mette in risalto la comunità di destino di tutti gli umani in un legame indissolubile con il destino bioecologico del pianeta Terra. E aggrava, al tempo stesso, la crisi dell’umanità che non riesce a costituirsi in umanità.
L’umanesimo è in crisi di fronte alle derive e ai ripiegamenti nazionalisti, ai nuovi fenomeni di razzismo e xenofobia, al primato dell’interesse economico su tutti gli altri. La coscienza della comunità di destino degli uomini dovrebbe rigenerarlo e dare un carattere concreto al suo universalismo finora astratto; ciascuno potrà allora sentire la propria integrazione nell’avventura dell’umanità. E se una tale coscienza si diffonde nel mondo diventando forza storica, allora l’umanesimo potrà creare una politica dell’umanità.
Morin ci mette di fronte all’evidenza del carattere interdipendente di ogni sfida e ci induce a riflettere sul significato vero di qualità della vita. Il neoliberismo ha condotto il genere umano ad un punto di rottura. Gli Stati si confrontano con la loro sostanziale inettitudine e tardano a trovare soluzioni creative, efficaci, che non riguardino la sola economia.
Il grande filosofo francese indica vie praticabili per arricchire e umanizzare il concetto di sviluppo che da fiaccola di speranza si è spesso trasformato in strumento di oppressione. Le restrizioni delle libertà individuali e il tracciamento di massa pongono interrogativi sulla possibilità di un neo-autoritarismo che rischia di servirsi dell’intelligenza artificiale per scopi del tutto liberticidi.
L’autore riflette sulla vita di ciascuno di noi, sull’aspirazione di vita vera propugnato dal carattere individualistico della nostra società, opponendo ad esso un ideale di politica di civiltà.
La politica di civiltà deve ha bisogno della piena consapevolezza dei bisogni poetici dell’essere umano. Deve sforzarsi di attenuare le costrizioni, le servitù e le solitudini , e opporsi al grigio dilagare della prosa, così da permettere agli esseri umani di esprimere le proprie inclinazioni poetiche.
Un’aspirazione sempre più profonda alla vita vera è promossa e alimentata dal carattere individualistico della nostra società; ma, al contempo , è inibita dalle sue costrizioni e incanalata nell’immaginario del tempo libero, al punto che tutta un’economia di evasione si mette al servizio di una vita vera: club di incontri, organizzazioni del tempo libero e delle vacanze, agenzie turistiche , soggiorni in agriturismo si impegnano a fornire le condizioni di quest’altra vita. Tutte queste ambivalenze, tutti questi cocktail di inviti alla poesia della vita vera, tutto fa parte della distrazione, del divertimento, dell’evasione, di un ritorno alle origini mitico-immaginarie, che consente tuttavia di vivere frammenti, momenti, esperienze di una vita vera. La politica di civiltà cerca di favorire le relazioni conviviali e amorose in una civiltà che propizia la poesia della vita , dove l’Io si realizza in un Noi.
Possiamo ora riconoscere il senso della politica di civiltà. Si tratta di rispondere al degrado e alla disumanizzazione della politica, dello Stato, della democrazia, della società, della civiltà, del pensiero, attraverso un pensiero e un’azione dediti alla loro rigenerazione e umanizzazione.
La lettura di queste 121 pagine offre una panoramica sul recente passato, sulla crisi in atto e sulle pratiche che potrebbero trasformare la crisi in opportunità, la frase più sbandierata e meno attuata nella storia dell’umanità.
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