Siamo felici di ospitare un’intervista ad Emanuela Sironi, coordinatrice del centro Ludis di Torino, uno spin-off accademico nato in seno alla facoltà di Psicologia per potenziare i bambini e gli adolescenti con disturbi di apprendimento. Il suo punto di vista che parte dalla scuola e arriva ai percorsi specialistici è particolarmente prezioso perché coglie appieno le eventuali resistenze ma anche le enormi possibilità di recupero che una buona sinergia con la scuola e la famiglia può offrire.
Frequentiamo il centro da febbraio scorso e abbiamo potuto avere un’idea molto concreta dei metodi di lavoro e dell’efficacia dell’approccio. I bambini si sentono supportati e scoprono i segreti per leggere e scrivere più facilmente o per affrontare più serenamente il mistero dei numeri.
Come è nato il tuo interesse verso le problematiche legate ai disturbi dell’apprendimento (DSA) e come l’esperienza a scuola ha indirizzato la tua azione di supporto ai bambini e ai ragazzi come psicologa?
Ho iniziato a lavorare molto giovane nella scuola primaria e sono stata subito colpita dalle difficoltà di apprendimento: ricordo come fosse ora un mio alunno molto bravo che continuava a compiere errori nella lettura e nonostante l’esercizio non migliorava. Mi sono iscritta alla facoltà di Psicologia e quando ho iniziato ad approfondire queste tematiche e a capire finalmente cosa accadeva ai miei alunni che non riuscivano ad imparare come gli altri, ho deciso che avrei voluto approfondire questo aspetto. Ho insegnato per 23 anni e poi ho deciso di dedicarmi a tempo pieno ad aiutare i ragazzi con difficoltà di apprendimento di ogni età. L’esperienza come docente mi offre una capacità di esaminare la situazione da vari punti di vista e mi permette di interfacciarmi meglio con la famiglia e la scuola per creare un lavoro sinergico.
Che ruolo ha o potrebbe avere la scuola nell’individuazione dei problemi ascrivibili alla sigla DSA e nel loro almeno parziale superamento? Come si comportano gli insegnanti, in base alla tua esperienza, verso difficoltà che storicamente finiscono sotto la voce “poca voglia di studiare”?
La scuola ha un ruolo fondamentale come è riconosciuto dalla legge 170/2010 sui DSA nel riconoscere i segnali del disturbo e inviare alla valutazione diagnostica; inoltre deve collaborare con gli specialisti per ottimizzare l’intervento utilizzando le strategie utili per ogni caso ed evitando quagli atteggiamenti di docenti che non solo ostacolano il miglioramento, ma possono creare demotivazione. La mia esperienza è molto ampia: qualche anno fa sentivo molto spesso “non si impegna, non ha voglia”, ora non succede quasi più.
Hai mai riscontrato resistenze, da parte dei genitori, ad indagare l’origine dei problemi di apprendimento dei figli o di accettare una diagnosi? Che giudizio pesa ancora oggi sui DSA?
Mi è successo raramente che i genitori non volessero indagare, perché, di solito, quando si rivolgono a me come psicologa ormai hanno deciso di capirne di più e aiutare il loro figlio. Diversa la situazione dei docenti che spesso consigliano un approfondimento ma non vengono ascoltati. Durante il primo colloquio io chiedo ai genitori se gli insegnanti avessero mai spinto ad approfondimenti diagnostici e spesso timidamente i genitori confessano che negli anni precedenti erano stati consigliati in tal senso ma avevano preferito aspettare. E’ un grave errore perché prima si interviene e migliori sono i risultati del potenziamento. Così facendo diminuiscono inoltre i rischi di conseguenze psicologiche emotive di tipo reattivo alla frustrazione e all’insuccesso.
C’è diffidenza tra gli insegnanti verso le diagnosi di DSA? Alcuni docenti ancora pensano che si tratti di alibi per fare meno? Capita che di fronte alla diagnosi gli insegnanti abdichino un po’ al loro ruolo?
Qualche mese fa una maestra mi ha detto che non credeva alla diagnosi, perché secondo lei le difficoltà erano legate solo al fatto che i genitori non riuscissero a far lavorare il bambino a casa: non siamo riusciti a convincerla (né io, né la logopedista, né la neuropsichiatra infantile) che il bambino aveva un reale problema e rifiutava di fare quei compiti perché non riusciva a farli!! Per fortuna è un caso raro, la maggior parte degli insegnanti è collaborativa e utilizza le strategie corrette. Alcuni docenti delegano talvolta molto gli esperti, altri invece si mettono in gioco e modificano il loro modo di insegnare per utilizzare una didattica inclusiva, cioè un modo di lavorare che aiuti i DSA ma non li renda diversi dai compagni.
Affrontare fin dalla prima elementare le parole con il metodo sillabico invece del metodo globale e i numeri con un metodo più concreto (è difficile pensare ai numeri come concetti astratti ma è più facile pensare a loro come quantità) non sarebbe di aiuto a tutti i bambini?
Gli studi dimostrano che alcuni metodi di insegnamento sono più inclusivi cioè aiutano i DSA ad imparare e non penalizzano il resto della classe: in parole semplici il metodo globale (che ha indubbi punti di forza) permette ai bambini senza difficoltà di imparare, ma è molto più faticoso per i DSA, quindi scegliere un metodo meno complesso permette che sia DSA che possano imparare.
Gli odiati test Invalsi possono aiutare ad individuare precocemente i bambini con disturbi di apprendimento? Come potrebbero essere migliorati?
Non credo che i test Invalsi servano ad individuare DSA, ma i ragazzini con difficoltà possono senz’altro avere basse prestazioni poichè sono molto impegnativi in quanto prevedono l’attivazione di vari processi cognitivi complessi in poco tempo. Io ridurrei il numero di esercizi o aumenterei il tempo di esecuzione.
Quali sono le figure che entrano in gioco nel potenziamento dei bambini e dei ragazzi e come ci si coordina con le scuole, in modo che non vanifichino il lavoro fatto con voi? Hai dei casi positivi di collaborazione con alcune scuole da segnalare?
Il potenziamento per DSA e altri disturbi dell’apprendimento deve essere svolto da specialisti: psicologi dell’apprendimento, logopedisti, neuropsicomotricisti. E’ indispensabile un raccordo con le scuole (a volte usiamo un quadernino che il bambino porta a scuola e dagli specialisti con messaggi regolari su obiettivi, attività svolte e difficoltà eventuali incontrate). Ho, per fortuna, moltissimi esempi che potrei citare di lavoro sinergico: sono i casi nei quali i progressi sono più rapidi e duraturi, il bambino ha un’alta motivazione verso l’apprendimento e non ci sono problematiche emotive.
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