Volersi bene è qualcosa di molto personale, come il benessere. Oggi usiamo la parola benessere applicata al tenore di vita e alla frequentazione di spa e centri estetici. In origine il benessere era una sensazione magari anche fugace ma personalissima, percepibile assieme alla consapevolezza di stare bene. La sensazione di benessere poteva derivare dalla fusione con la natura, dall’essersi tolti un peso, dall’aver compiuto una qualche pur minima impresa, insomma da un bel paesaggio interiore.
Lo star bene e il benessere sono diventati cavalli di Troia del marketing che, come è ben noto, sfrutta le emozioni per vendere beni ad esse associate grazie alla magia dello spot. Esiste ormai una consolidata immagine del benessere che è legata ai concetti di
- purezza
- bellezza longilinea
- armonia
- tonicità
- salute
- giovinezza
Se davvero queste parole rappresentassero lo star bene soggettivamente percepito, saremmo tutti magri e ginnici (non giovani, perché invecchiare è inevitabile in barba alla pubblicità). Lo saremmo non perché è buono e giusto per noi ma perché ci fa stare bene. Com’è allora che su molti di noi una lasagna fa ancora più presa di una vellutata di zucca, un pomeriggio passato a guardare film sul divano ci fa stare meglio di una corsa e i muscoli ci piacciono anche accompagnati da una dose variabile di ciccetta?
E’ vero che la carne è debole e la pigrizia è sempre in agguato ma è anche che fatica e privazione ti fanno stare meglio di salute nel medio e lungo termine ma una fetta di torta in compagnia ti dà un piacere immediato che suona come un premio e come un regalo. Quattro mesi di addominali regalano una “tartaruga” di cui essere padroni orgogliosi ma è tutto da vedere che diano anche un senso di benessere.
Il benessere può essere legato all’idea di prendersi cura, di fare qualcosa per il bene, di rimediare a qualche vuoto. I vuoti si curano o si riempiono. Riempirli di dolci o riempirli di muscoli, in modo ossessivo, non è poi tanto diverso. Certo i muscoli sono utili, il grasso no ma entrambi sono associati all’assunzione di endorfine. Pasticcini ed esercizi sportivi danno un senso di euforia e di compiutezza.
Lo sport esalta la macchina che è in noi. Valutiamo la performance del nostro corpo come faremmo con una moto da corsa, le diamo la benzina che serve a funzionare meglio. Il cibo esalta il parco dei divertimenti che è in noi. Assaporiamo gusti e ci immergiamo in profumi che ci riportano all’infanzia o ci fanno viaggiare. Lo sport è soggetto alle regole della ragione (o almeno così dovrebbe essere) mentre il cibo è veicolo e amplificatore di emozioni.
Per gli sportivi il pericolo del cibo è il disfacimento, la corruzione del corpo (della sua forma). Per chi ama il cibo e non lo sport, l’attività ginnica è una punizione. Estremizzare questi punti di vista aiuta a capire le direzioni verso cui guardano ma è difficile incarnare uno o l’altro in modo assoluto. Sarebbe quasi preoccupante. Ognuno di noi oscilla in modo incostante attorno ad un polo o ad un altro sconfinando qua e là a seconda di quelli che per alcuni sono dei desideri e per altri sono dei cedimenti. E’ buffo analizzare come uno strappo alla regola sia interpretabile in modo così diverso.
C’è chi trasgredisce gioiosamente e chi invece con senso di colpa, come se una fettona di torta vanificasse l’allenamento di giorni. Essere equilibrati è molto difficile e non ha nemmeno tanto senso imporselo. Un equilibrio nostro, salutare e piacevole, dobbiamo trovarlo in base a come siamo, a quel che amiamo, al nostro utile e anche al dilettevole.
La foto della rosa di zucchero è di US National Archive