Gli insegnanti non sanno più insegnare, si sente dire talvolta in dibattiti sulla scuola. Qualcuno dice che la scuola dovrebbe avere il pugno duro, che non dovrebbe perdere tempo e che il suo compito principale sia formare i giovani alla vita futura, soprattutto alla vita lavorativa. Qualcuno aggiunge che gli insegnanti non sappiano più come si tengono a bada le classi. La premessa a tali affermazioni è che il ruolo dell’insegnante sia quello di un manager-allenatore che debba condurre le classi all’assunzione di una conoscenza situata nei libri e nella mente degli insegnanti.
Quando si parla di scuola, ognuno tende a vendicarsi dei docenti sgraditi che ha avuto oppure a difendere i modelli che sono ideologicamente vicini al proprio sentire e ai propri schemi mentali. Quella dell’insegnamento però è una lunga storia, influenzata dalla Storia grande (con le leggi razziali, i bambini ebrei e i giovani ebrei venivano cacciati dalle aule; durante il fascismo alunne e alunni venivano organizzati in strutture paramilitari e pesantemente indottrinati) ma anche dalla storia della psicologia dell’educazione che ha avuto uno sviluppo tutt’altro che piatto, capace di aggiornare nei decenni la concezione di apprendimento come assimilazione passiva ad una visione che valorizza sempre di più aspetti personali, sociali e culturali. Dall’apprendimento a memoria e alla ripetizione, dalle punizioni e ai rinforzi positivi o negativi si è giunti ad una visione rispettosa di studentesse e studenti e ad un ruolo di guida all’autonomia e alla scoperta riservato ai professori che, oltre a spiegare, svolgono innumerevoli altre attività “sottili” di osservazione e di attivazione di processi di motivazione verso la classe nonché di trasmissione di sapere sugli aspetti metacognitivi dell’apprendimento. Tutta lì sta la differenza tra la visione degli alunni come contenitori e quella che li valorizza come individui capaci di applicare sia strategie di studio che strategie di controllo dello studio, flessibili e creative.
La psicologia dell’apprendimento
Nell’attuale teoria dominante in psicologia dell’educazione, la conoscenza non è solo nei libri e nei dotti che la dispensano ma nella società e nella sua cultura. La conoscenza è quindi distribuita nelle persone e negli artefatti culturali (strumenti veri e propri, mappe, schemi, linguaggio, formule, teorie, simboli). Il rapporto tra ambiente ed individuo, mediato dalla cultura, è il cardine dello sviluppo cognitivo che ha sia componenti biologiche che culturali. Attraverso il linguaggio interiore che è l’applicazione intrapersonale del linguaggio appreso nella società, il bambino inizia a ragionare in base a quel che sa e a quel che gli arriva dalla scuola, dalla famiglia e dai contesti di cui fa parte.
Dalla visione comportamentista all’approccio socioculturale che informa i recenti modelli di insegnamento, innumerevoli esperimenti sono stati fatti e mille metafore sono state applicate per spiegare la mente alle prese con lo studio. La mente come elaboratore, la mente come costruttrice di una conoscenza che si aggiorna a contatto con nuove conoscenze accreditate, la mente come centro di condivisione e creazione di artefatti culturali all’interno di una comuntà di cui gli studenti siano membri a tutti gli effetti.
I lavori di gruppo, l’educazione tra pari (reciprocal teaching), i dibattiti, i metodi deduttivi e il problem solving applicati a situazioni reali che i ragazzi debbano risolvere con la guida dell’insegnante sempre meno interventista, non sono perdite di tempo ma momenti cruciali in cui ognuno può applicare le proprie strategie, mettere in gioco le proprie conoscenze, scoprire la complementarietà del proprio modus operandi con quello di altri compagni, accrescere la propria consapevolezza delle dinamiche interpersonali e intrapersonali che si attivano quando le materie di studio si mettono in gioco e prendono vita.
La vita di classe insegna ad affrontare il conflitto cognitivo non come un tabù ma come una palestra in cui ascoltare, mettere in discussione le proprie credenze e i propri punti di vista, insegna ad assumere i punti di vista altrui per passarli al proprio vaglio ed eventualmente metterli in discussione. A scuola si impara che è possibile e legittimo avere opinioni diverse e si sperimenta il dialogo. Ecco ulteriormente spiegata l’importanza dei lavori di gruppo, in cui ognuno deve aver parola e in cui la risposta collettiva deve tenere conto del contributo di ogni elemento.
Dobbiamo chiedere che la scuola insegni le materie previste ma è sbagliato pensare che serva solo a travasare sapere perché non è così che funziona la mente umana. Ricevere sapere non equivale a immagazzinarlo automaticamente nella memoria a lungo termine. Non possiamo aspettarci che i bambini apprendano quello che non viene praticato mai, né a casa, né a scuola o in altre comunità frequentate. Imparare ad imparare, imparare a dialogare e ad ascoltare, riuscire a pianificare e a coordinare un lavoro di gruppo sono attività centrali e altamente formative che rispondono alla domanda a cui pochi danno una risposta, la domanda Perché si va a scuola? Ci si va per aggiornare o addirittura per ristrutturare le proprie conoscenze, per allargare i propri orizzonti culturali, per imparare ad usare le strategie euristiche adatte ad obiettivi diversi, per sperimentare e per sbagliare, per conoscersi meglio e per conoscere gli altri ma anche per tantissimi altre ottime ragioni. Bisogna quindi ammettere che le lezioni esclusivamente frontali che alcuni adulti rimpiangono non assolvano tutti i compiti utili ad un apprendimento profondo che i ragazzi possano non solo integrare ai propri schemi ma anche applicare ad altri contesti e in modi sempre più efficaci.
Ecco un elenco di attività che si possono acquisire a scuola e forse solo lì:
- dare definizioni
- categorizzare
- esprimere e argomentare valutazioni
- ragionare per analogie e somiglianze
- confrontare correttamente
- individuare e applicare principi generali
- affermare in modo neutro e documentato, senza dare giudizi di valore
- vagliare le fonti
- individuare casi esemplari
- riconoscere e applicare rapporti di causa ed effetto
- fare previsioni attendibili su dati certi
- interrogarsi sul proprio rapporto con la propria cultura di appartenenza
- collocarsi in un contesto socioculturale e storico che ha un passato e il cui futuro dipende anche da noi
- imparare ad autovalutarsi grazie ai feed back ricevuti dagli insegnanti ma anche grazie al controllo sistematico delle strategie applicate e dei risultati ottenuti
- assumere obiettivi di padronanza più che di performance (in questo i genitori possono contribuire molto)
Il paradosso della scuola è che è una palestra del pensiero puro di ampio uso e di massima applicabilità in cui veniamo giudicati individualmente per quello che sappiamo ma che sa essere afficace quando il lavoro di apprendimento viene condiviso socialmente e strutturato attorno alla realizzazione comune di compiti in contesti definiti e in ambiti di conoscenza precisi.
Come impariamo? Registro sensoriale, memoria di lavoro e memoria a lungo termine
Il processo di apprendimento passa attraverso complessi meccanismi della mente che, partendo da informazioni sensoriali, le invia alla memoria di lavoro. Tale memoria ha spazio e tempo limitati e si serve di sottosistemi: il loop fonologico e il taccuino visuospaziale che lavorano sotto l’occhio attento del sistema attenzionale di controllo alla luce di aspetti semantici, simbolici e sottosimbolici. Le conoscenze si installano nella memoria a lungo termine dopo l’intricatissimo vaglio di tutti questi sistemi che dialogano continuamente con la memoria a lungo temine per prelevare, confrontare, rielaborare, connettere ad altre informazioni ancora gli elementi utili alla comprensione e alla presa di possesso dei concetti.
Il registro sensoriale si attiva con procedure di confronto e riconoscimento, la memoria di lavoro è invece una specie di fabbrica chimica che fa reagire i dati con ciò che è già contenuto nella memoria a lungo termine che codifica, immagazzina e recupera.
Quali sono i nemici dell’apprendimento?
- false credenze
- soli obiettivi di performance
- strategie di evitamento
- mancanza di sensibilità da parte degli adulti che non devono essere né troppo presenti, né troppo assenti
- incapacità del discente di usare l’attenzione in modo flessibile e aggiornare il proprio comportamento
- bassa qualità della relazione tra il discente e l’adulto
La riuscita dell’apprendimento dipende anche da una buona affettività e dalla motivazione ad imparare. La classe ideale è quella in cui studentesse e studenti non si giudicano ma collaborano, i voti sono visti come utili feed-back per riorientare comportamento, obiettivi e strategie di studio, gli insegnanti accompagnano la classe in un percorso di padronanza della materia e dei processi metacognitivi e i genitori supportano questo circolo virtuoso.
La scuola si occupa dei processi più complessi che esistano in natura. Vigotskij, fondatore della teoria dello sviluppo sociocognitivo, diceva che l’unico vero buon apprendimento è quello che anticipa e rafforza lo sviluppo psichico. Questo è l’ambizioso obiettivo della scuola, sviluppare pienamente le potenzialità degli individui e aumentare la consapevolezza di sé e della società di cui si è parte.
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La foto è tratta da National Library of Medicine