Di giornalismo e verità si è parlato oggi al Gruppo Abele, fabbrica delle “e” votata all’inclusione sociale, che da 50 anni si occupa di chi non è libero perché è povero (in povertà non si hanno molte scelte) e combatte la cultura mafiosa che è dentro e fuori di noi. Dei racconti appassionati e incredibilmente significanti che Luigi Ciotti ha regalato al suo uditorio, alcuni più di altri hanno un valore particolare per chi si occupa di psicologia.
Le verità passeggiano per le vie delle nostre città è la prima frase, più volte ripetuta, che riecheggia nella mente, sia nel suo senso letterale, sia nel suo senso traslato in ambito psicanalitico. La verità è sotto i nostri occhi, è spesso dentro di noi. Ci passiamo davanti tutti i giorni ma facciamo finta di non vederla, perché ci fa male o perché prendere atto della sua presenza vorrebbe dire compiere qualche azione, cambiare noi stessi o i nostri comportamenti (e questo è faticoso). Capita di veder compiere scorrettezze, di essere testimoni di ingiustizie o di reati ma quante volte tiriamo avanti, pensando che se ne debba occupare qualcun altro? Nelle nostre città si annusano fenomeni preoccupanti, lo sentiamo sulla pelle, registriamo a volte che qualcosa non va. Segnalare quel qualcosa alle autorità può rendere la nostra società più responsabile, così come diventiamo più consapevoli di noi stessi se ammettiamo di avere un problema e iniziamo un percorso per risolverlo.
Il furto delle parole è il secondo tema capitale, culturale e per questo assai subdolo, che caratterizza la comunicazione attuale e gli alibi di cui ci ammantiamo come società. Esistono parole abusate, tradite e gettate ai rovi, parole che finiscono per giustificare il senso contrario a quello originario come:
- legalità
- società civile
- vittima
La parola “legalità” è diventata un idolo. Tutti se ne riempiono la bocca, la celebrano esteriormente ma il suo significato si svaluta. Sono decenni che si educa alla legalità, che si inneggia a questo principio ma le mafie e la corruzione sono sempre più potenti. Dove sta il cortocircuito? Quante volte pronunciamo una parola pensandone interiormente un’altra?
“Società civile” è un’espressione che non significa più molto. Tolte le autorità e i vip, chi resta è la società civile? In cosa è civile? Un aggettivo che cambierebbe le cose, accanto a società, è “responsabile”. Non c’è legalità senza uguaglianza e responsabilità. Non c’è società, non c’è collettività credibile, senza che sia anche responsabile.
“Vittima“, la abbiamo visto anche nei casi di violenza sessuale, è un’etichetta stretta, è una riduzione di identità. Una vittima viene confinata al dolore di ciò che ha subito, la sua evoluzione non è prevista.
Questi sono solo alcuni esempi di un fenomeno a cui si dovrebbe prestare grande attenzione per non entrare in binari che ci relegherebbero in uno stato passivo rispetto alla realtà. Non dobbiamo diventare “vittime” della realtà.
L’ultimo concetto cardine, che ci coinvolge tutti come esseri viventi in un sistema purtroppo mafioso, è che “le mafie non sono un mondo a parte, cambiano assieme a noi“. Rappresentarci senza macchia, come società e come individui, non aiuta il confronto con le ombre sociali e personali.
Il giornalisti sono utili se contribuiscono alla creazione della coscienza critica di un paese.
Luigi Ciotti
Giornalismo e coscienza, individuale e collettiva, sono i soggetti di un dialogo che può renderci più responsabili.
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Nella foto Maria Teresa Martinengo (Ordine dei giornalisti) e Luigi Ciotti