Psicomamme: genitorialità, consapevolezza e creatività

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Victoria, un capitano di lungo corso da Harvard a Torino

Elena Bottari Febbraio 7, 2014

Oggi incontriamo Victoria, un capitano di lungo corso approdato a Torino dopo molti viaggi e dopo un’indimenticabile esperienza di studio ad Harvard.
Le abbiamo fatto qualche domanda sulla sua giovinezza e sulla sua vita in Italia. Ci sembra un’intervista importante anche per la forte carica ideale che in lei non si è mai attenuata 🙂

Ci racconti i tuoi ricordi di studentessa di Harvard e di capitano di lungo corso?
Mi ricordo bene la gioia che ho provato mettendo piede nel bellissimo campus di Harvard nel settembre di 1970 per iniziare i miei studi per un dottorato in storia.  Avevo grandi aspettative di ricevere stimoli intellettuali e di poter studiare con professori famosi  e in gran parte le mie attese sono state realizzate.  Ho completato i primi due anni del percorso, ricevendo il Master (MA) da Harvard.  Era emozionante. La quantità di lavoro richiesta era enorme, ma ho imparato molte cose sulla storia europea.  Ed eccomi qui in Europa, ormai da 29 anni.

Per quanto riguarda i miei ricordi di viaggi in barca vela, sono tanti e molto belli.  Per parlare di uno in particolare, (anche se la stessa situazione si è ripetuta tante volte) mio marito ed io stavamo facendo un passaggio a largo della costa e dovevamo fare dei turni di 3 ore al timone.  Erano le 2.45 di mattina ed ero  nel mio letto sotto tetto, al caldo, dormendo tranquillamente.   Mio marito è venuto a svegliarmi con una tazza di tè in mano dicendomi  dolcemente:  “Tesoro, tocca a te, adesso. Devi svegliarti.” Ma io non avevo nessun voglia di svegliarmi, di andare in coperta o di vestirmi per andare a stare al freddo. “Tesoro” ripeteva lui.  Eh bè, devo andare.  Contrariata e ancora mezza addormentata, cercavo di vestirmi più in fretta possibile perché se no c’era il rischio di avere il mal di mare lì in cabina dove si sentiva di più il movimento delle onde. Una volta sul ponte, col timone in mano, stavo scambiando qualche parola con mio marito che rimaneva anche lui con me per un po’, in parte per farmi compagnia in parte per essere sicuro che io fosse veramente abbastanza sveglia. Ad un certo punto mi ha salutata ed è sceso sotto ponte.  Io mi lamentavo dentro di me.  (“Ma chi mi lo fa fare?  Ma perche’ sono qui? Che barba tutto questo,” ecc.) E poi pian piano, mi sono resa conto del magnifico silenzio, a parte il sussurro delle onde e il suono del vento.  Ho alzato i miei occhi e ho visto un cielo stellato, stelle che brillavano intensamente.  La mia mano sentiva il timone che rispondeva all’azione delle onde, alla forza propulsiva del vento nelle vele.  Ho sentito tutto questo e ho provato una grande, serena felicità.

Com’era l’atmosfera negli Stati Uniti quando studiavi?
Io avevo 20 anni nel ’68 e studiavo nel New England.  Mi piacevano i miei studi di storia e letteratura europea ma dovevo anche dedicare un tempo dovuto a “cambiare il mondo.”  Quasi tutti di noi pensavamo che fosse possibile e che fosse il nostro dovere agire su molti fronti. Eravamo sicuri di noi stessi e credevamo che un mondo migliore fosse possibile.  Come tutti sanno, questa idea è sempre stata una parte della mentalità nostra statunitense, ma in quell’epoca era sentita con grande intensità.  Potevamo forzare il governo a ritirarsi dalla guerra in Vietnam.  Potevamo realizzare un’uguaglianza totale per gli Afroamericani, anche nel vecchio Sud.  Dopo d’aver fatto tutto questo, pensavamo di prendere le nostre lauree e lanciarci nel mondo di lavoro dove, senz’altro, potevamo aspettare di intraprendere delle belle carriere, forse come insegnanti o nei servizi sociali.  A 20 anni, non mi è mai venuta in mente l’idea di non poter trovare un lavoro.  Mi dispiace tanto per i giovani Italiani che studiano, si impegnano, fanno tanti sacrifici per arrivare alla laurea e poi passano 4, 6, 8 anni con contratti a termine, senza poter entrare veramente nel mondo di lavoro con un posto di lavoro sicuro. 

Cosa varrebbe la pena ricordare ai ragazzi di oggi?
Forse i nostri sogni e le nostre aspettative erano grandiose e gonfiate, ma dall’altra parte io sono contenta d’aver vissuto quella stagione d’impegno insieme agli altri, facendo le nostre proteste (sempre pacifiche nel mio caso), sempre alimentate dal nostro idealismo.  Il senso d’appartenenza, il senso di fare parte di un grande movimento, sono cose molto arricchenti per una persona giovane, a mio avviso. E alcune delle nostre iniziative hanno portato dei risultati.  Io spero che la vostra generazione, di fronte  ad un mondo dove va sempre avanti la disuguaglianza e persistono molte situazioni di  ingiustizia, possa trovare delle cause da portare avanti con vigore e fantasia. 

Quali erano le tue autrici e i tuoi autori preferiti?
Trovavo interessanti i racconti dei ricchi Inglesi intorno a Firenze nel fine ottocento, gente colta e un po’ viziata che viveva in un’Italia in parte immaginaria.  Poi all’Università, nei corsi d’italiano, mi hanno fatto leggere Cesare Pavese, il cui lavoro ho trovato affascinante. Spinta dal senso di dovere, ho letto I Promessi sposi che apprezzavo per i suoi aspetti storici ma non tanto per quelli letterari. Forse non ero all’altezza di farlo 🙂

Come hai deciso di stabilirti in Italia?
Verso la fine del ’84, ho ricevuto una telefonata da un ragazzo che prima lavorava nella piccola azienda che mio marito ed io abbiamo messo in piedi nel ’73.  Mi diceva: “Sai, Victoria, c’è un’azienda Italiana del settore nautico che sta cercando qualcuno che conosce bene il settore nautico negli Stati Uniti, sa qualche cosa di pubblicità’ e copywriting e parla un po’ di Italiano. “Presente!”, ho detto, dentro di me.  Ho fatto due colloqui per telefono e mi hanno offerto un lavoro.  Ho fatto i bagagli e poi l’11 di gennaio del 1985, sono arrivata in una Torino gelida, sommersa nella neve.  Vengo dal nord degli Stati Uniti, ma a quel punto ero reduce di 12 anni a Key Largo, al sud della Florida.  All’inizio, le temperature invernali erano scioccanti, ma mi sono detta: “Che bello avere la possibilità di passare un paio di anni a lavorare nella bella Italia!” E eccomi ancora qui, non più a Torino, dove sono stata per 25 anni, ma sempre in Piemonte in un contesto e dentro una cultura dove mi trovo bene.  Dico “dentro una cultura” perche’ ormai sono abbastanza “acculturata”, ma una parte di me rimane radicata nella mia cultura d’origine, quella protestante, del nord est degli stati Uniti. Trovo interessante e stimolante la mia condizione d’essere per tanti versi “dentro” ma per altri sempre un po’ “fuori”.

Cosa ti aveva affascinata?
La bellezza, come prima cosa.  La bellezza delle città, la bellezza dei paesaggi Piemontesi e anche, dopo, quelli della Toscana e dell’Umbria. E poi, la gentilezza, l’apertura e l’ospitalità delle persone. So bene che questo va a contrasto degli stereotipi dei Piemontesi, ma per me è stato così. Qui ci vuole un po’ di tempo per stabilire un rapporto d’amicizia ma una volta stabilità, si tratta di un’amicizia vera. Inoltre, per me, come per innumerevoli altri stranieri, la gioia di avere una piccola trattoria sotto casa dove si mangia e si beve divinamente, questo è un elemento da non svalutare. Brasato al Barolo, risotto ai fughi, la polenta concia….La gola ha la sua parte.

Come si vive in Italia e come è cambiata l’Italia in questi anni, dal tuo punto di vista?
Per certi versi, l’Italia è diventata più “Americana” in un aspetto negativo:  quando sono arrivata nel ’85, c’era un equilibrio sano e giusto fra lavoro e vita privata, vita di famiglia. Ora, come negli States, chi ha un lavoro lavora tutte le ore possibili immaginabili mentre il numero di chi non ha lavoro è sempre in crescita’. Un cambiamento positivo, invece, si vede nella capacita’ di alcuni giovani di inventarsi un lavoro in proprio. Anche questo mi sembra “Americano”, ma si tratta di un aspetto bello della nostra cultura. 

Ci puoi parlare del tuo impegno nella campagna elettorale di Obama?
L’emergere del candidato Barack Obama verso la fine del 2007 mi ha folgorato. Finalmente, un uomo intelligente, che parla bene, che parla delle cose che io ho ritengo essenziali per il mantenimento delle nostre tradizioni democratiche più importanti si e’ presentato alla nazione.  Parlava “la mia lingua”, esprimeva i miei valori, vedeva il mondo come lo vedevo io.  Dopo 8 anni di un governo Repubblicano, le cui politiche spesso mi hanno fatto  provare una vergogna profonda, e’ arrivato qualcuno che prometteva di rimettere il nostro paese sulla strada giusta, seguendo i passi di Lincoln, di Roosevelt, di Dr. Martin Luther King.  Dopo anni di inattività politica, mi sono messa in azione.  Mi è stata chiesto di fare da coordinatrice per il Piemonte del gruppo Americans in Italy for Obama, all’inizio del 2008.  Con un gruppo di connazionali, anche loro residenti qui da tanti anni, abbiamo cercato di contattare tutti gli americani residenti nella Regione per spiegargli com’è diventata facile votare nelle elezioni presidenziali dall’estero.  Abbiamo organizzato degli eventi vari e, coordinati da un gruppo di lavoro del Partito Democratico negli Stati Uniti, abbiamo fatto delle telefonate agli elettori democratici negli Stati Uniti, spesso quelli nel nostro stato d’origine, per dire loro come fosse importante votare questa volta.

Quali sono stati gli aspetti più esaltanti di questa avventura?
Il momento più esaltante è stato la mattina dopo l’elezione. Guardavamo il televisore per vedere la grossa folla di persone, Afro-Americani , “Bianchi” ma anche Americani di tutti i colori e tutte le origini tutti insieme a festeggiare la vittoria di qualcuno che esprimeva una visione di giustizia, uguaglianza, e pari opportunità al livello nazionale e cooperazione al livello internazionale.  Ho pianto di gioia per quasi mezz’ora.  Obama non è riuscito a fare tutto quello che ci ha promesso ma ha cercato di fare del proprio meglio, nonostante il feroce ostruzionismo Repubblicano  e inoltre ci ha fatto ricordare quello che è più bello nelle nostre tradizioni, senza farci dimenticare o glissare sopra i nostri sbagli e errori, le ingiustizie che abbiamo commesse a casa e altrove.  (Vedete che non ho una visione ”bipartisan”.  Sono sempre dalla parte del mio Presidente).

Su cosa l’Italia dovrebbe puntare, dal tuo punto di vista, per tirarsi fuori dal pantano?
Nel corso dei miei 29 anni come ospite qui nel Bel Paese, ho sempre evitato di dire agli Italiani cosa dovrebbero fare. Non sarebbe un comportamento appropriato per un ospite, a mio avviso.  Avrò delle speranze per questo vostro paese, però.  Spero che in qualche modo gli italiani possano ritrovare quegli istinti per l’ospitalità, la solidarietà e la generosità che fanno parte della vostra cultura profonda. Rappresentano dei valori che sono parte della vostra DNA, secondo me. Mi rendo conto, però, che tali qualità sono difficili da esprimere in un momento di crisi economica profonda. Ma molti di voi giovani italiani e italiane state già reagendo al piano economico con un’ ingegnosità’ e una  creatività del tutto italiana.  Avete capito che una risposta vincente alla crisi economica (che sicuramente non avete creata voi ma con la quale dovete convivere) è quella di mettersi in proprio, di lanciare piccole attività di nicchia con prodotti e/o servizi di grande qualità. E poi, una cosa che mi ricordo dei miei studi storici: tutto va secondo cicli: prima o poi queste insistenze sull’Austerity debbono cessare e nuove strade aprirsi davanti a voi. Ve lo auguro con tutto il cuore.

La foto delle barche a vela è di Florida Memory

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