Perché di fronte a notizie sconvolgenti e di portata planetaria non reagiamo più? Siamo in una fase burn-out collettivo o proprio non ce ne importa più di nulla? I ghiacci della Groenlandia si sciolgono, milioni di alberi bruciano, fenomeni migratori vengono contrastati con disumanità, in ogni continente si registrano attacchi ai pilastri della democrazia, numerose specie animali sono in via di estinzione e l’opinione pubblica sembra sedata. L’ennesima estate all’insegna della distrazione di massa va in scena noncurante di tutto ciò che esula dalla comunicazione del potere che preferisce le vie informali, travalica gli ambiti e i modi istituzionali.
200 studiosi di tutto il mondo hanno recentemente firmato un appello contro le fake-news sul global warming.
Gli scenari futuri “business as usual” (cioè in assenza di politiche di riduzione di emissioni di gas serra) prodotti dai tutti i modelli del sistema Terra scientificamente accreditati, indicano che gli effetti dei cambiamenti climatici su innumerevoli settori della società e sugli ecosistemi naturali sono tali da mettere in pericolo lo sviluppo sostenibile della società come oggi la conosciamo, e quindi il futuro delle prossime generazioni.
Vengono tuttavia ancora ripostate interviste di personalità scettiche al riguardo o articoli pressapochisti che deducono l’insensatezza del fenomeno da una forte nevicata o da un grosso temporale.
Viviamo ormai tra due poli opposti: il panico morale e l’acquiescenza. Il picco dell’attenzione e dello sdegno, ma forse sarebbe meglio dire dell’odio, si raggiunge con il panico collettivo ingiustificato diretto contro nemici o fenomeni feticcio suggeriti da una comunicazione che punta a ottenere un effetto emotivo, noncurante dei mezzi attraverso cui ottiene tale scopo. Ciò che segue è l’acquiescenza acritica verso una rappresentazione semplicistica del mondo e verso le “soluzioni” che ne conseguono. All’alba del 2020 abbiamo rispolverato teorie etnocentriche e idee razziste. Ci illudiamo che non guardare in faccia i veri problemi significhi cancellarli e invece crediamo a bolle comunicative create ad arte, sulla pelle dei più deboli. Riduzionismo e oggettivazione sono il pane quotidiano del “discorso” politico.
La delega che gi elettori danno ai loro rappresentanti tramite il voto è ormai sentita come deresponsabilizzazione dal monitoraggio dell’operato degli eletti affinché sia coerente con i principi della nostra democrazia che tutela gli esseri umani e i loro diritti inalienabili aldilà di ogni differenza.
Abituati a ragionare in termini particolaristici individuali, settoriali, regionali, nazionali, rifiutiamo di aprirci alla complessità dei sistemi in cui viviamo. Ci illudiamo di poter isolare i nostri interessi individuali dai micro, meso e macro contesti che influiscono su di noi. In un mondo globalizzato non ha senso ragionare di confini e di muri e se lo facciamo è perché assumiamo come verità rappresentazioni distorte che hanno poco a che fare con la realtà dei fatti e dei numeri. Problemi vecchi (mafie, corruzione, clientelismo, familismo amorale, ignoranza, debito pubblico, spopolamento…) si sommano a problemi nuovi. Se lo facciamo non è rispondendo all’intelligenza ma alla convenienza, la nostra o quella di chi ci sta manipolando.
Per studiare soluzioni potremmo analizzare la storia, fare simulazioni, ricorrere agli studi di caso, organizzare task force di intellettuali ed esperti, chiedere aiuto alle organizzazioni internazionali nate per perseguire pace e uguaglianza nel mondo, analizzare tutte le alternative e i loro svoluppi ricorrendo anche all’intelligenza artificiale ma no, quello che facciamo è dare la colpa a chi è più debole e porta su di sé lo stigma della differenza, preferiamo prendercela con un capro espiatorio, la mossa perfetta per perdere tempo utile e non sentirsi non solo parte in causa ma proprio con-causa del problema. La mossa perfetta per allontanarci dalle nostre più nobili origini e dal cuore della cultura che diciamo di voler difendere.
Auto-assolti e sedati. Così ci ricorderemo nella cartolina dell’estate 2019.
Ma vediamo esempi di panico morale
- La paura che i rom “rubino” i bambini. Ci sono state vere e proprie ondate di panico a riguardo ma dopo una brevissima ricerca ecco scoperto che non è mai successo che i rom rapissero un solo bambino.
- Un’altra bufala vuol far credere che i migranti portino malattie. I migranti hanno una salute mediamente buona.
- Chi ricorda gli anni ’80 e la quantità di falsità circolate riguardo l’Aids non avrà dimenticato la paura dilagante che il virus si trasmettesse bevendo dallo stesso bicchiere o con un bacio. Ecco un articolo sulla psicosi che conoscemmo allora riguardo l’Hiv.
- La caccia alle streghe è un esempio così calzante di panico morale che tale locuzione è usata per identificare ogni allarme ingiustificato seguito da azioni persecutorie
Per approfondire:
- Il panico morale come dispositivo di trasformazione dell’insicurezza, Marcello Maneri
- Complessità e Riduzionismo, Pierluigi Graziani
- Bruce Sterling, Panico morale e caccia alle streghe nell’era di Internet
- Stanley Cohen nel suo libro Folk Devils and Moral Panics – The Creation of the Mods and the Rockers, 1972
L’immagine è di Internet book archive via Flickr
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